Paola Navilli racconta la personalità del marito e la sua passione per i reportage nelle zone di crisi

di Marilù Mastrogiovanni – “Era una persona eclettica, con grandi interessi e grandi curiosità. A scuola vinse un concorso. Poteva scegliere, tra i premi in palio, un viaggio o una macchina fotografica. Lui scelse la macchina fotografica. E da lì è iniziato un amore pazzesco. Avrà avuto al massimo 14 anni”.

Paola Navilli inizia così il racconto del ricordo del marito Raffaele Ciriello, ucciso il 13 marzo del 2002 a Ramallah, in Cisgiordania, crivellato da una raffica di cinque pallottole 7,62 Nato, fatte esplodere nella sua direzione da una tank israeliano, mentre altre due andarono a finire sul muro. Aveva 42 anni e una figlia di 17 mesi (leggi).

“Non voglio piegare il ricordo di Raffaele alla retorica dell’eroe – dice Paola Navilli – Raffaele non era un eroe”, ripete.

Ciriello era un giornalista-giornalista. Eppure, non era iscritto all’Ordine, perché iscritto già all’Ordine dei medici. Era un giornalista ed era un medico, ma la sua memoria è stata rimossa da entrambe le categorie.

Perché? E’ stato oggetto di pregiudizio secondo lei?

“Era scomodo, perché non era inquadrabile in una sola categoria. Da qualche giornalista è stato definito – dice Paola Navilli – uno che aveva il piede in due scarpe, in maniera dispregiativa. Ho querelato, e la giustizia mi ha dato ragione. Era un medico, ma era anche un fotoreporter, seguiva il suo fiuto giornalistico. Studiava moltissimo e leggeva, si informava, coltivava le sue fonti. Organizzava le sue missioni, i suoi reportage, dando retta al suo intuito. L’Afghanistan l’aveva stregato, così come era sconvolto dalla guerra del Kossovo, così vicina a noi. Andava lì dove sentiva che ci fosse l’urgenza di raccontare. Il suo essere medico e fotoreporter gli è costato parecchio: è stato considerato un ‘usurpatore’ da entrambe le categorie. Eppure non era un improvvisato: ormai il fotogiornalismo era diventato il suo lavoro. Dopo l’11 settembre del 2001 la sua carriera di fotoreporter aveva avuto un’accelerata: era stato molto tempo a contatto con Ahmad Massud per realizzare un reportage per il New York Times. Il reportage video su Massud venne mandato in onda da Rai1. Sua era la fotografia per la campagna “Get up stand up” di Amnesty international America”.

Raffaele ha realizzato decine di reportage in Africa, Sud America, Medio Oriente: come sceglieva i suoi soggetti?

“Era un freelance, leggeva tantissimo, curava le sue fonti, seguiva delle storie che lo appassionavano. A volte, soprattutto negli ultimi tempi, aveva un vero e proprio assignment dalle redazioni, per esempio quella del Corriere”.

Aveva un assignment anche quando andò in Cisgiordania e fu ucciso?

“Si. Aveva un assignment del Corriere della Sera”.

Quale scenario di crisi lo aveva appassionato di più?

“In Somalia, era andato tante volte, l’ultima con Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le foto che li ritraggono insieme, Ilaria e Miran, sono tutte di Raffaele, anche se nessuno lo ricorda. In Afghanistan andò per la prima volta con Maria Grazia Cutuli. Erano molto amici, andarono insieme, senza assignment di nessuna redazione, rimasero un mese. Quasi tutte le foto che circolano di Maria Grazia sono sue, ma nessuno le firma. Andarono seguendo il loro fiuto, quando ancora in Afghanistan non era andato nessuno, e le tensioni interne stavano per esplodere. Furono i primi”.

E’ stato difficile avere il riconoscimento di vittima del terrorismo?

“E’ stato tutto difficile. Ma niente è accaduto per caso. Ci sarebbe voluta più vicinanza”.

Da chi, dalle Istituzioni, dallo Stato?

“Non voglio dire di più. Ci sarebbe voluta più vicinanza. Lasciamola così. Da una parte la macchina dell’eroe, dall’altra la rimozione. Era una figura complessa, era fuori dagli schemi, era più semplice da rimuovere che da onorare. Il fatto che sia stato ucciso in Israele ha complicato le cose, anche se in quel Paese ho incontrato persone gentilissime che mi hanno aiutato molto. Ma non vorrei che se ne facesse una questione ideologica, anche se all’inizio l’hanno ridotta a questo”.

Raffaele Ciriello sarebbe dovuto tornare a casa il 14 marzo. La sera prima del tragico attentato, aveva sentito Paola, perché il 12 marzo è il suo compleanno.

Era molto preoccupato: l’11 marzo c’era stato un attacco degli israeliani all’Hotel City Inn, dove albergavano tutti i giornalisti. Il clima era ostile e teso, gli israeliani avevano dichiarato che non avrebbero ammesso giornalisti nelle zone delle operazioni militari né avrebbero consentito ai fotografi di scattare. Era contento di ritornare.

Si erano sentiti per gli auguri poi, il giorno dopo, la notizia del ferimento, data al telefono, mentre su Televideo scorrevano già i titoli della sua morte, per la quale nessuno ha pagato.

E’ morto con la telecamera in mano, mentre filmava. E’ morto mentre stava facendo il suo dovere di giornalista.


Leggi su Ossigeno il ricordo nel 19mo anniversario della morte 

Leggi la storia di Raffaele Ciriello qui

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