Il ricordo di Arianna Polenghi e l’appello a fermare la strage di civili e cronisti nella striscia

OSSIGENO 18 maggio 2024 – di Luciana Borsatti – Sono ormai 14 anni che Fabio Polenghi, fotografo freelance, è stato ucciso in Thailandia in un blitz sanguinoso dell’esercito contro il movimento antigovernativo delle “Camicie rosse”. Come ricostruito nelle di diverse pagine dedicata a Fabio su questo portale, i manifestanti – seguaci dell’ex premier Thaksin Shinawatra – chiedevano da due mesi, accampati nel centro di Bangkok, elezioni anticipate al governo di Abhisit Vejjajiva. E Fabio era lì a documentare quei fatti. Ma il 19 maggio 2010 l’esercito intervenne per porre fine alle proteste, già segnate da diversi scontri con morti e feriti da entrambe le parti. Trascinato anche lui nella fuga, il fotoreporter milanese fu colpito alla schiena e trafitto al cuore da un proiettile che, secondo i giudici del tribunale thailandese che poi si occupò del caso, era in dotazione all’esercito. Ma quella sentenza del maggio 2013  non stabilì chi aveva sparato né chi avesse dato l’ordine di farlo, e di processi non ve ne furono altri, nonostante l’impegno della famiglia e in particolare della sorella Elisabetta.

Quella di Fabio è dunque una delle tante morti rimaste senza giustizia, fra le trenta in totale che il giornalismo italiano conta dal 1960 a oggi, e la sorella Arianna – l’unica rimasta, dopo la morte per tumore di Elisabetta – non si sente più di tornare su quegli eventi dolorosi. Ma una cosa la dice, pensando al massacro di civili in corso da mesi a Gaza: “Fabio avrebbe voluto essere lì a testimoniare questa strage inutile. Penso che il modo migliore per ricordarlo sia fare un appello all’Occidente affinché smetta di appoggiare la strage di civili e di giornalisti che Israele sta portando avanti indisturbato, e dire grazie al Sud Africa che nel suo piccolo sta cercando di fare qualcosa. E indignarsi davanti a chi parla ma non conclude niente: mi sarei aspettata l’intervento dei Caschi blu a proteggere civili e giornalisti”. “Mi piange il cuore quando sento quanti giornalisti continuino a morire – aggiunge Arianna, rispondendo per email a Ossigeno per l’Informazione – e mi riferisco principalmente a quelli trucidati sul lavoro o in casa in Palestina”. Cento infatti i giornalisti palestinesi uccisi negli attacchi israeliani accertati su 105 in totale, secondo una ricostruzione del Committee to Protect Journalists (CPJ) aggiornata al 15 maggio 2024: relativa dunque ai primi sette-otto mesi del conflitto tra Israele e Hamas, scatenato il 7 ottobre 2023 un attacco terroristico senza precedenti, che ha provocato la morte di circa 1200 israeliani.

Dunque, secondo la sorella Arianna, Fabio ora sarebbe sui luoghi di questo ultimo sanguinoso conflitto. E certo ci sono molte ragioni per dirlo. Come raccontava lui stesso, il fotoreporter era  stato in Kosovo accompagnando la Kfor; in Brasile e nelle favelas di Rio di Janeiro, collaborando con alcuni progetti sociali e di 0ng; in Sud Africa, per un reportage sugli omicidi e l’insicurezza in alcuni gruppi minoritari; in Cambogia, per un un lavoro sulle mine anti-uomo; nel Myanmar e nei campi profughi al confine thailandese, documentando la condizione dei Karen e di altri gruppi etnici in fuga dal regime birmano; in Thailandia a documentare il mercato del sesso e, ancora, in Kenia, Sierra Leone, Messico, Honduras, Cuba, Cina, Giappone, Korea, Nepal, India. Andava e talvolta anche tornava, Fabio, in quei luoghi dilaniati da conflitti e problemi sociali, spinto da quello che lui stesso definiva, candidandosi a collaborare con Ong impegnate sul piano internazionale, la “capacità che sento di avere, di aiutare quanti ne hanno bisogno” e da un’empatia che spingeva i suoi soggetti a dargli fiducia. “Aveva ben presto scelto il mondo come casa e la fotografia come un caleidoscopio per raccontarne le mille realtà diverse”, si legge sul sito a lui dedicato. Abbandonando presto gli ambienti della moda, dove si era formato nei primi anni con l’agenzia milanese di Grazia Neri, che di lui avrebbe detto: “aveva una personalità così estroversa ma al tempo stesso timida e gentile, che era una cosa rara e lo rendeva immediatamente simpatico” e a tutto “si avvicinava con delicatezza”.

Purtroppo la sua morte non ha lasciato molte tracce nel ricordo dei suoi stessi colleghi e dell’opinione pubblica in Italia, come non ha avuto esito positivo la richiesta dei familiari di ottenere dallo Stato l’indennizzo previsto per le vittime del terrorismo, della mafia e dei reati intenzionali violenti. E purtroppo si è fermato anche il lavoro dell’instancabile Elisabetta, che non solo cercava giustizia ma aveva anche avviato il progetto di un monumento a Bangkok, un portale sull’acqua per la libertà di informazione e la tutela dei diritti umani, in memoria non solo di Fabio ma anche di tutti i caduti sui fronti di guerra e in contesti difficili. “Isa” sapeva bene che la morte del fratello, mentre svolgeva  il proprio lavoro, non poteva considerarsi una sfortunata vicenda individuale ma andava inserita nel contesto più generale della difesa della libertà di stampa e della vita e dell’incolumità dei giornalisti, come di tutti i civili, in contesti di guerra. Un principio ben presente anche nel pensiero della sorella Arianna, davanti alle nuove tragedie dei nostri giorni.

 

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