L’ultima con la quale ha parlato.Chi era il tecnico di ripresa ucciso a Mostar trent’anni fa insieme a Marco Luchetta e Alessandro Ota

OSSIGENO 28 gennaio 2024 – di Grazia Pia Attolini – “Avrei compiuto 22 anni nel 1994. La morte di mio padre è stata un colpo. Partecipò a quella missione per caso, per sostituire un collega. Il destino ha voluto che io sia stata l’ultima persona che l’ha visto e anche l’ultima con la quale ha parlato”. Inizia così il racconto di Nataly D’Angelo, figlia del tecnico di ripresa Dario, ucciso a Mostar da una granata il 28 gennaio 1994 insieme agli altri due inviati della RAI del Friuli-Venezia Giulia.

In occasione del trentennale dalla strage (leggi), Ossigeno per l’informazione ha raggiunto telefonicamente Nataly D’Angelo che ha ringraziato l’Osservatorio per il lavoro a sostegno dei giornalisti minacciati in Italia e in ricordo degli operatori uccisi da mafie, terrorismo e guerre.

Ripercorrendo gli ultimi attimi di quel gennaio 1994, la figlia di Dario D’Angelo traccia il profilo umano del padre e confida la rabbia per l’impunità che grava ancora sul suo omicidio.

La sera prima di partire, era un lunedì – ricorda – mio padre forse ebbe un presentimento e disse a mia madre che sarebbe andato a fare una passeggiata in città per salutare la sua Prosecco. Io non credo molto nei presagi, tuttavia dopo tutto quello che è capitato ho iniziato a pensare che forse lui sentisse davvero qualcosa dentro di sé. Il giorno dopo fui io ad accompagnarlo alla sede regionale RAI. Il giorno prima della strage, fui sempre io a parlargli quando chiamò a casa”.

Le parlò della situazione che stava vivendo con i suoi colleghi? E in generale, in famiglia raccontava delle sue missioni e del suo lavoro?

“Non voleva che sapessimo quello che lui riusciva a vedere ciò che noi abbiamo saputo solo attraverso i racconti dei suoi colleghi successivamente, come ad esempio che c’erano i cadaveri ovunque e che la gente giocava a palla con le teste dei cadaveri. Voleva forse proteggerci. Ma sia io che mia madre sapevamo che portava dentro di sé segni indelebili. Quando rientrava dalle missioni non trascorreva notti tranquille, faceva incubi, lo sentivamo parlare o gridare nel sonno. Tra le poche cose che mi ha raccontato ricordo che i suoi spostamenti su regata e che lui e i suoi colleghi dovessero scrivere TV sopra la macchina con il nastro nero che usano gli elettricisti per evitare di essere colpiti dai cecchini.

Fu una granata a uccidere Luchetta, Ota e D’Angelo. Ma per loro non c’è ancora giustizia dopo tre decenni. Come altri operatori dell’informazione vittime di guerra, anche per i tre inviati RAI l’inchiesta giudiziaria si concluse senza esito. Lei e la sua famiglia vi siete arresi alla motivazione “è stata la guerra”?

“Era una guerra di cui si parlava poco, se non attraverso i racconti di giornalisti e operatori come mio padre. In una zona come quella di Mostar cosa poteva fare più clamore e far parlare se non l’uccisione di gente estranea alla guerra, i giornalisti? Ho sempre avuto e serbo tutt’ora il dubbio che quella strage sia stata studiata e voluta perché Mostar era una zona assediata, a Mostar est in particolare da tanti mesi i giornalisti non riuscivano ad entrare, come accaduto a Marco Luchetta il mese prima, a dicembre 1993. A distanza di trent’anni, io e la mia famiglia siamo molto arrabbiati, perché è stato chiuso tutto troppo velocemente e non si è andati avanti a voler sapere come davvero siano andate le cose, a cercare la verità”.

Com’era suo padre nella vita di tutti i giorni?

“Amava la musica, suonare e ballare. Quando ero piccola mio padre suonava la batteria in un complesso locale. Era una persona dinamica e vivace. In casa si sentiva in gabbia, per questo era sempre in giro, in automobile o in vespa”.

Cosa crede di aver ereditato da suo padre?

“Sicuramente la dinamicità e la passione per l’informazione. Non sono una giornalista né una reporter. Lavoro presso le teche della RAI del Friuli-Venezia Giulia, mi occupo di catalogare o consigliare brani per le messe in onda e di archiviare in un catalogo multimediale tutte le produzioni edite dalla sede regionale in lingua slovena, sia Tv che radiofoniche.  Nella vita di tutti i giorni mi piace sapere, conoscere, restare informata, documentarmi e confrontare i punti di vista su quello che accade nel mondo, anche ascoltando e confrontando tutti i telegiornali della giornata. Ho due figli, una di 23 e l’altro di 19 anni, ai quali provo a trasmettere l’interesse per l’approfondimento che oggi manca ai più giovani che si limitano alla fugacità dei social”.

Parla di nonno Dario ai suoi figli?

“Lo conoscono bene sebbene non lo abbiano mai conosciuto. Loro sanno tutto fin da piccoli, nei minimi particolari. Hanno sviluppato un attaccamento per il nonno che non avrei mai pensato. Sono loro i nuovi testimoni della sua storia”.

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