In Thailandia molti ricordano ancora la straordinaria sorella di Fabio Polenghi, scomparsa 7 anni fa

Cercando e chiedendo giustizia sopravvisse quattro anni al fratello ucciso da un’arma dell’esercito – Vinse la sua battaglia, sia pure a metà – Chi era – Cosa stava facendo – Come la ricorda un giornalista dell’Ansa

OSSIGENO 19 maggio 2021 – di Luciana Borsatti – Una battaglia vinta a metà contro l’impunità di chi uccide un giornalista in un contesto di conflitto. Si potrebbe sintetizzare così ricerca della verità sulla morte di Fabio Polenghi, il fotoreporter milanese ucciso a 48 anni, mentre documentava la repressione delle proteste delle “camicie rosse” a Bangkok, il 19 maggio 2010. Quella battaglia fu combattuta con tenacia dalla sorella di Fabio, Elisabetta, che ottenne la celebrazione di un processo in Thailandia: un processo che si concluse il 29 maggio 2013 stabilendo che Fabio era stato colpito alla schiena dal proiettile di un fucile in dotazione all’esercito, mentre correva con i manifestanti per sfuggire all’offensiva dei militari, ma che non individuò né chi sparò il colpo né chi aveva dato l’ordine di farlo. Il bilancio finale di due mesi di proteste fu di almeno 91 morti, fra cui un reporter giapponese.

A undici anni dalla morte di Fabio Polenghi Ossigeno per l’Informazione torna a ricordarlo aggiornando con questo dossier la sua pagina sul sito “Cercavano la verità” giornalistiuccisi.it: a questo link si può leggere la storia di Fabio e la vicenda dell’inchiesta giudiziaria e del processo in Thailandia, che probabilmente mai ci sarebbero stati senza l’impegno e la tenacia della sorella.

Non si tratta solo di Fabio, ma dei diritti umani e della libertà di informazione
Qui invece si vuole leggere la vicenda di Fabio Polenghi attraverso la storia di Elisabetta, Isa per i familiari e gli amici, che si dedicò per anni alla ricerca di verità e giustizia per il fratello, finché un tumore non la portò via nell’aprile del 2014. Ma la sua battaglia andava oltre la vicenda personale. Sul sito ufficiale che ricorda il fotoreporter milanese, e da lei in particolare voluto, campeggia infatti la scritta “Freedom of information guarantees human rights”.

Non si tratta solo di Fabio – vi si legge – si tratta di affermare dei diritti umani fondamentali, la vita, la libertà di informazione, in difesa della democrazia. Se accettiamo con facilità che i reporter possano essere uccisi senza pretendere chiarezza, diventiamo complici di tutte le violazioni che quotidianamente vengono commesse”.

Il progetto di Isa di un monumento a Bangkok per la memoria dei caduti e i diritti di tutti
Elisabetta aveva anche lavorato al progetto di un monumento da erigere sull’acqua, proprio a Bangkok, per la libertà di informazione e i diritti umani, in memoria non solo di Fabio ma anche di tutti i caduti sui fronti di guerra e in contesti difficili, e di tutte le altre vittime (oltre 90 in due mesi di proteste) degli scontri in cui perse la vita il fratello (leggi qui).

Portale sull’acqua. Render a cura dello Studio Lariani

Non era un’utopia, ma un progetto già pronto nell’estate del 2013 e di cui Elisabetta aveva parlato con alcune autorità allora in carica: a capo del governo vi era all’epoca Yingluck Shinawatra, sorella dell’ex premier Thaksin deposto da un colpo di stato nel 2006 e punto di riferimento, benché in esilio, del movimento antigovernativo della “camicie rosse” che per due mesi aveva animato le proteste del 2010 chiedendo elezioni anticipate: le manifestazioni nel cui ultimo giorno Fabio aveva perso la vita. Ma la premier sarebbe stata destituita nel maggio 2014 dalla Corte Costituzionale, e dopo alcuni mesi di reggenza da parte di un esecutivo ad interim vi fu un nuovo colpo di stato militare: l’ennesimo nella storia del Paese. E la stessa Elisabetta sarebbe morta nello stesso anno, il 28 aprile 2014 per un tumore al pancreas.

Gli ultimi mesi della sua vita li avrebbe trascorsi in silenzio, ma l’eredità ideale che Elisabetta Polenghi ha lasciato va ben oltre, appunto, la sua vicenda familiare.

Può la morte di un giornalista essere derubricato a effetto collaterale dei conflitti?
La morte di Polenghi chiamava infatti in causa questioni che ci coinvolgono tutti: può la morte di un giornalista in contesti di crisi e di guerra essere derubricato a effetto collaterale di tali conflitti, che esenti da ogni responsabilità penale individuale gli esecutori materiali e i loro più alti in grado? Possono insomma le guerre e gli scontri di piazza cancellare ogni responsabilità giudiziaria di chi uccide civili e giornalisti disarmati?

E’ la stessa domanda posta da Ossigeno per l’Informazione nel suo dossier su Andrea Rocchelli (leggi qui), il giovane fotoreporter ucciso nell’Ucraina Orientale il 24 maggio 2014: il presunto responsabile della sua morte, un cittadino italo-ucraino andato a combattere nel Paesi di origine, è stato prima condannato a 24 anni di carcere dalla Corte di Assise di Pavia, poi assolto in appello a Milano.

Anche in questo caso, al di là della vicenda giudiziaria specifica, si pone la questione più generale dell’impunità che in genere si prospetta per chi uccide civili e giornalisti in contesti di guerra. Elisabetta Polenghi ce l’aveva ben chiara, questa questione, e proprio per sottrarre all’oblio dell’impunità i responsabili della morte di Fabio si è battuta. Ottenendo il processo in Thailandia, un fatto inedito per il Paese e tanto più perché a contribuirvi era stata una “straniera”, e ottenendo un primo, benché parziale risultato: a uccidere Fabio, con un proiettile che lo aveva raggiunto alla schiena trafiggendogli il cuore, era stato un M16 in dotazione all’esercito.

Sono contenta a metà – dichiarava allora all’Agenzia Ansa Elisabetta, nell’aula della Corte penale -. Non è una sentenza che mi metta il cuore in pace, sembra voler spostare più in là la soluzione del problema”.

La memoria del reporter sbiadita in Italia, il vivo ricordo di lui e di Isa in Thailandia
Lo stesso Ursic scrisse inoltre sempre su La Stampa (leggi qui) anche un commosso ricordo di Isa due giorni dopo la sua morte a Milano. Un ricordo che non tralasciava di notare come la memoria del fotoreporter ucciso si fosse nel frattempo, proprio in Italia, già sbiadita.

“Isa se n’è andata in silenzio, proprio lei che a far rumore aveva dimostrato di essere bravissima. E il silenzio, è triste constatarlo, sarà anche il modo in cui verranno ricordate in Italia la sua lotta e la stessa figura di Fabio Polenghi”. “Isa è morta a Milano – prosegue -, dopo una malattia che l’aveva consumata negli ultimi mesi e di cui aveva informato solo chi le era più vicino. Eppure i primi a riportarlo sono stati dei giornalisti thailandesi, e io stesso ho faticato – senza essere sorpreso – a trasmettere l’importanza della notizia in Italia, dove più passava il tempo e più il nome di Polenghi veniva dimenticato dagli stessi giornalisti. Ogni volta che ho dovuto scriverne, dovevo sempre ricordare i fatti a chi di dovere con formule come “Sì, Polenghi, quel fotografo italiano ucciso a Bangkok nel 2010… la sorella ha portato avanti un’encomiabile lotta per la giustizia, ricordi?”.

Ma quella perdita di un coraggioso reporter, e di conseguenza il laborioso procedimento giudiziario che Isa era riuscita a portare avanti solo grazie alla sua insistenza, nella memoria collettiva italiana non sono mai entrati, per diversi motivi. La Thailandia è quel “Paese dei sorrisi” meta turistica di molti italiani, ma le divisioni politiche che l’attanagliano sono troppo distanti dall’Italia per lasciare un segno. Polenghi ha perso la vita durante una caotica situazione di guerriglia urbana, trovandosi nel mezzo della battaglia senza un giubbotto antiproiettile. E da freelance nomade, non aveva alle spalle un’organizzazione mediatica che ne alimentasse la memoria”. E Invece in Thailandia, a ogni viaggio che lei faceva per seguire il caso del fratello, “l’interesse dei media locali cresceva. Chi era questa ostinata donna dalla perenne zazzera bianca, in maglietta e pantaloni comodi anche nelle aule di tribunale, che sfidava l’oscura giustizia thailandese puntando il dito contro l’esercito? Le forze armate sotto accusa per mano di una straniera, in un Paese dove nessun militare è mai stato condannato per nessun reato, nonostante 18 colpi di stato e una lunga scia di sangue in nome della difesa della trinità “nazione, religione, monarchia”?

Ma in Italia, tutto questo arrivava col contagocce. Isa se n’era resa conto ben presto, rassegnandosi all’evidenza”. Nel frattempo però la britannica Bbc, invece, “aveva ricostruito la sua vicenda in un bellissimo documentario di un’ora. A Bangkok, Isa era ormai conosciuta da tutti i giornalisti che bazzicano attorno al Foreign Correspondent Club, dove aveva organizzato una mostra con le ultime immagini scattate dal fratello. Giornali e tv seguivano gli sviluppi della sua battaglia, incantati da tale perseveranza. Più di una volta, al capire che ero un giornalista italiano, qualche thailandese mi ha detto “ah, italiano come quel fotografo”. Ma per Elisabetta la battaglia che aveva condotto per il fratello, investendo tutte le sue energie e anche i suoi risparmi, con la sentenza che aveva stabilito che quel proiettile era partito dall’esercito era stata appunto vinta solo a metà.

“Da chi era partito il colpo – si chiedeva ancora Ursic – e perché? Chi era quell’uomo che – lo si vede in alcuni video – rubò la macchina fotografica di Polenghi non appena cadde a terra? Com’è che non si è mai riusciti a rintracciarlo?”

Ad ascoltare la sentenza in aula stavolta c’erano con lei anche la sorella Arianna e la madre Laura Chiorri, morta nel novembre 2020. “Dopo la sentenza la madre mi disse: «Mia figlia da quel giorno non vive che per suo fratello, non ha più una vita sua». Si era consumata, davvero. Ma era ancora capace di sorridere, così come aveva fatto quando le avevano consegnato in camera d’albergo l’urna con le ceneri di Fabio. Ero lì con lei, colpito dalla sua forza, e ricordo ancora nitidamente la scena. «Guarda come mi tocca riportare a casa mio fratello», mi disse. Senza piangere, e abbozzando un sorriso amaro. L’abbracciai forte per salutarla. Mentalmente, lo faccio anche ora”.

Le proteste in Thailandia un decennio dopo, cosa è cambiato da quando vi morì Fabio
E sempre a Ursic chiediamo cosa sia cambiato, in Thailandia, in questi ultimi undici anni dalla morte di Fabio e dalle manifestazioni delle “camicie rosse” di cui era stato testimone e poi vittima, alla luce delle nuove proteste antigovernative nel Paese tra il 2020 e il 2021.

Nel 2010 in piazza c’era la Thailandia rurale che amava l’ex premier Thaksin – ricorda – le proteste dell’ultimo anno invece hanno visto i giovani delle classi urbane prendere l’iniziativa, per chiedere una Thailandia più moderna e democratica, ma anche spingendosi ad assolutamente blasfeme richieste di riforma della monarchia. Il culto della personalità di Thaksin non c’è più, ma in sostanza si può dire che le proteste del 2010 hanno gettato i semi, che ora hanno attecchito tra i giovani, molto apolitici nel 2010”.

Ma, aggiunge, tra accuse di lesa maestà, incarcerazione dei leader studenteschi e una tattica del «lasciamoli sfogare, tanto più di tanto non possono fare», le proteste si sono sgonfiate. L’ideale resta – conclude – ma la massa silenziosa, ora come nel 2010, non è ancora pronta a una rottura completa”.

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