Colloquio con il cronista di mafia sulla criminalità organizzata e il giornalismo di ieri e di oggi a Catania a 38 anni dal delitto che seguì come inviato speciale di “Repubblica”

di Grazia Pia Attolini e Vincenzo Arena – «Mi occupai del delitto Fava quale inviato di Repubblica, in quei primi giorni di gennaio del 1984», racconta a “Ossigeno – Cercavano la verità”, 38 anni dopo, il giornalista Attilio Bolzoni che negli anni Ottanta seguiva le vicende di mafia e ha continuato a farlo per decenni dalle colonne di “Repubblica”. Adesso continua sule pagine del quotidiano “Domani” e sul blog “Mafie” dove, in venti puntate, ha pubblicato l’importante sentenza d’appello sul delitto di quel giornalista, per la cui uccisione sono stati condannati all’ergastolo come mandanti il capomafia Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, mentre sono stati assolti Marcello D’Agata, Francesco Giammusso e Vincenzo Santapaola, che erano stati condannati in primo grado come esecutori; la sentenza è stata confermata in Cassazione nel 2003 (leggi).

La sera del 5 gennaio 1984 Giuseppe “Pippo” Fava fu sorpreso da un agguato nei pressi del Teatro Stabile. Fu la mafia a ucciderlo. Eppure ci sono voluti anni per accertarlo. A lungo cercarono di far credere che fosse rimasto vittima di un delitto passionale. Perché a quei tempi a Catania la mafia, secondo l’opinione di molti, non esisteva proprio. In realtà, ricorda Bolzoni, la città etnea «era una città palude, molto più di Palermo: il boss locale Nitto Santapaola era considerato un notabile, un commerciante che inaugurava insieme al prefetto la sua concessionaria d’auto. E i giornali non ne parlavano. L’unica voce dissonante, forte, era quella di Pippo Fava che denunciava gli intrecci tra politica, affari e alcuni imprenditori, alcuni “cavalieri del lavoro” al servizio della mafia o che traevano enormi vantaggi da Cosa nostra, che Fava chiamava “I Cavalieri dell’Apocalisse” (leggi). Quella di Pippo Fava era una voce diversa, che turbava la quiete di una città sonnolenta che faceva finta di non conoscere i suoi mali e il suo male principale: la presenza della mafia».

Pippo Fava era impegnato con coraggio e passione civile sul versante della legalità. Non era soltanto giornalista. Era anche scrittore, drammaturgo, saggista, sceneggiatore e aveva ottenuto importanti riconoscimenti nazionali.  «Al di là delle sue denunce sulle collusioni della politica con i poteri criminali mafiosi a Catania, la cosa che più colpisce, ancora oggi, di Pippo Fava – sottolinea Bolzoni – è la duttilità e la modernità del suo giornalismo fatto di sapere, da una parte, cioè di esperienze che aveva accumulato nel tempo con lo studio e il lavoro sul campo, e moderno dall’altra. Fava è stato anticipatore di tante cose, come il giornalismo di racconto, basti ricordare che è stato tra i primi, alla fine degli anni Settanta, a realizzare reportage televisivi. Il suo spessore professionale, il suo rigore umano, la sua creatività mi hanno sempre incuriosito e affascinato».

Un giornalista importante, forse non abbastanza ricordato. Professionista dal 1952, collaborò con varie testate regionali e nazionali, dedicandosi anche alla sua vocazione artistica, letteraria e pittorica. Nel 1980 assunse la direzione de “Il Giornale del Sud” dalle cui pagine vennero ricostruiti il sacco edilizio e l’arrembaggio dei mafiosi agli appalti più lucrosi. Per queste iniziative Fava subì censure da parte dell’editore della testata. Alla fine venne licenziato. Nel 1982 iniziò l’avventura editoriale de “I Siciliani”, un vero e proprio laboratorio di giornalismo dove giovani cronisti, i suoi “carusi”, sognavano una Sicilia migliore.

«Dopo “L’Ora” di Palermo, quella de “I Siciliani” è certamente l’altra grande esperienza editoriale che ha fatto scuola – racconta Bolzoni – ma pensare che oggi ci possano essere realtà simili sarebbe anacronistico. Sono cambiati i tempi, la mafia è cambiata e anche il giornalismo. A Catania c’è chi sul sacrificio e il valore dell’esperienza de “I Siciliani” ha imparato a fare giornalismo. Ma un giornalismo diverso rispetto al passato. Oggi è molto più difficile per un cronista riconoscere, e quindi raccontare, una mafia che non spara come prima e non si manifesta all’esterno con la violenza. È necessario vivere molto profondamente all’interno di quella realtà per riconoscerne i segni. Insomma se la mafia non la cerchi non la trovi». Vale per la Sicilia e per tutte le zone ad alta concentrazione criminale.

A Catania, in particolare «c’è una grande separazione tra l’alta mafia che comanda e quella delle piazze di spaccio, del racket, dell’estorsione. Tra esse c’è un muro invalicabile attraverso il quale non passano mai contatti diretti, come invece accade in altre zone della Sicilia. Per questo è ancora più difficile disvelare e raccontare dinamiche e intrecci. Certamente un cronista se he voglia e coraggio lo può fare, ma c’è anche molto conformismo nel giornalismo contemporaneo». Non mancano gli esempi virtuosi. È soltanto difficile, dice Bolzoni. «Oggi i poteri occulti o della criminalità organizzata hanno appoggi istituzionali. Pensiamo, ad esempio, al caso che riguarda Antonello Montante, l’ex vicepresidente nazionale di Confindustria con delega alla legalità, colluso con la mafia: un uomo emanazione di Cosa nostra coccolato da prefetti, questori, capi dei servizi segreti, sindaci come l’ex sindaco di Catania. Come fa un giornalista a cercare la verità se non cerca davvero di tirare fuori quelle connivenze, quei rapporti, quel sistema di relazioni?».

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    Silvia Persiani

    Interessantissimo. Il link all’articolo di Pippo Fava sui Cavalieri della Apocalisse utilissimo. È vero la scrittura di Fava è ricca di documenti e bella espressivamente. Ciò che dice di Sindona mi ha colpito molto. Aveva capito tutto. E chi capisce tutto in questo paese non è ben visto. Importante tenere alta la memoria di chi facendo informazione come si deve ha perso la vita. Grazie a questo blog che ho appena scoperto. Grazie come sempre ad Attilio Bolzoni per l’infaticabile e sapiente impegno con cui si spende