Mario Cutuli ricorda la sorella uccisa in Afghanistan

di Raffaella Della Morte – Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Graziella De Palo. Sul Pannello della Memoria di Ossigeno per l’Informazione i nomi e i volti di queste giornaliste compaiono, insieme a quelli di ventisette loro colleghi che, come loro, hanno perso la vita perché “cercavano la verità”, la cercavano per raccontarla a tutti noi.

Il 21 marzo 2022, Ossigeno renderà omaggio alla loro memoria con una cerimonia pubblica alla Casa del Jazz di Roma (viale di Porta Ardeatina 55, ore 10-13) dedicata a Ilaria Alpi nel 28mo anniversario della morte.
L’8 marzo, ricorrenza del giorno dedicato alla celebrazione della festa della donna, l’Osservatorio che monitora le aggressioni a danno degli operatori dell’informazione e difende il loro diritto di esercitare la libertà di informazione, rende pubblici i dati del 2021 sulle giornaliste minacciate a causa del loro lavoro. Sono state 105, il 27% dei 384 operatori dell’informazione colpiti da analoghe minacce e intimidazioni nel nostro Paese. È il numero più alto da quando, nel 2006, Ossigeno ha intrapreso il monitoraggio sistematico di queste intimidazioni; un numero che si fa ancor più pesante considerando che sono aumentati i casi caratterizzati da attacchi sessisti e discriminazioni di genere. (leggi altri dettagli)

Le discriminazioni e gli attacchi intimidatori aumentano. E’ un grande problema, ma non si può dire che le donne che lavorano nel mondo dell’informazione demordano. Anzi, ogni anno dimostrano più coraggio, professionalità, volontà di non subire passivamente e con rassegnazione, voglia di esercitare una libertà che non può conoscere limitazioni di genere né quote di pari opportunità, pur di mostrare ai lettori ogni sfaccettatura dei fatti.

Su quanto possa essere ricca la visione delle giornaliste, in quanto ingloba la loro sensibilità e l’autonomia di giudizio, valgono le recenti parole della Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, sull’importanza del ruolo delle donne nella nostra società: ne abbiamo bisogno «non perché sono migliori, ma perché sono diverse».

Questa diversità riesce ad esprimere ancor di più quel valore democratico del giornalismo che dà spazio e voce, senza discriminazioni e violenze, avendo come unico obiettivo il racconto dei fatti e delle verità nascoste. Per praticare questo giornalismo libero, coraggioso e democratico ai giorni nostri molte giornaliste non si tirano indietro, come non si sono tirate indietro Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli e Graziella De Palo, nemmeno quando hanno affrontato missioni rischiose sapendo che potevano pagare con la vita le loro inchieste scomode.
Come ogni anno, in occasione della celebrazione della Giornata internazionale dedicata alla donna, Ossigeno ha reso noti i dati di genere. E ha parlato con Mario Cutuli, fratello di Mariagrazia, una delle tre giornaliste italiane uccise mentre svolgevano il proprio lavoro, che ha raccontato di lei e della sua idea del giornalismo, del suo amore per questo lavoro e dell’eredità che ha lasciato il suo sacrificio, per amore della verità.

Mariagrazia era una giornalista che lavorava per il Corriere della Sera, un’inviata della redazione esteri. È morta il 19 novembre del 2001, in Afghanistan, sulla strada poco sicura che doveva portarla a Kabul. Fu uccisa insieme ad altri tre cronisti: Julio Fuentes, inviato del quotidiano spagnolo El Mundo, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari, corrispondenti dell’Agenzia Reuters. Maria Grazia Cutuli era nata a Catania. Aveva 39 anni. Due mesi dopo l’attentato che fece crollare le Torri Gemelle di New York e causò tremila morti, si era impegnata a cercare informazioni sulla matrice di quel terribile attentato in quel paese indicato come la più probabile base organizzativa di quell’orribile carneficina. Proprio quel giorno di vent’anni fa in cui Maria Grazia perse la vita, il Corriere della Sera aveva pubblicato in prima pagina il suo scoop sul ritrovamento di un deposito di gas nervino all’interno di una base abbandonata dai talebani. (leggi la storia di Maria Grazia Cutuli)

Il 19 novembre 2021 i venti anni della sua tragica scomparsa sono stati celebrati con diverse iniziative. Un anniversario caduto a poca distanza dalle drammatiche vicende di guerra che hanno segnato nuovamente l’Afghanistan, tornato ad agosto 2021 sotto il controllo dei talebani con l’esplicita negazione di diritti e libertà fondamentali.

«Proprio per il legame di Maria Grazia con quei luoghi, per quello che noi abbiamo lasciato lì, le vicende di agosto 2021 mi sono state particolarmente a cuore. La sensazione è stata che dopo 20 anni non fosse cambiato nulla. Gli articoli scritti venti anni prima potevano benissimo essere pubblicati in quei giorni», ha detto Mario Cutuli a Ossigeno.

Come avete vissuto, tu e gli altri familiari, la decisone di Maria Grazia di andare in Afghanistan? E poi, il fatto di saperla laggiù, e la notizia della sua morte?

«Sapevamo che chi fa quel mestiere deve mettere in conto i rischi e che Maria Grazia era molto professionale, non faceva mosse avventate. La circostanza della sua morte era assolutamente imprevedibile. Le avevo parlato al telefono pochi giorni prima; mi aveva detto che c’erano disordini, le avevano consigliato di non uscire e lei era rimasta in albergo. Maria Grazia conosceva molto bene i rischi del suo mestiere, ma era prudente. Sicuramente, dopo la sua morte, come purtoppo è accaduto anche per altri, qualcuno avrà pensato che Maria Grazia se l’era cercata; nell’immaginario comune di questa società, qualcuno avrà anche pensato che quel lavoro che faceva Maria Grazia non era una lavoro per donne. Per mia sorella non era soltanto un lavoro, era una missione: la ricerca della verità delle cose. Un compito che diventava sempre più gravoso, districandosi in un’informazione sempre più confusa».

Proprio in un villaggio ad Herat, in Afghanistan, dopo la morte di Maria Grazia, con la Fondazione Cutuli, è stata inaugurata una scuola di colore blu cobalto e circondata da alberi di frutta. L’istituto, dedicato alla memoria della giornalista da sempre attenta ai più piccoli, ai dimenticati, ai loro diritti e alla loro tutela, spicca nel desertico villaggio. Mario si occupa dei progetti della Fondazione insieme alla sorella, Donata, che proprio di recente, in un intervento scritto di proprio pugno in occasione del ventesimo anniversario della scomparsa di Maria Grazia, ha raccontato gli ostacoli incontrati per la realizzazione del progetto e di come «a un certo punto – scrive Donata – ci era stata prospettata l’ipotesi di fare una scuola per soli maschi. Ovviamente ci siamo opposti con forza, in tal caso avremmo rinunciato all’intero progetto. Non ci serviva costruire qualcosa che ci avrebbe dato sì pubblicità, della quale i giornali avrebbero certamente parlato ma che poi di fatto creava un’ulteriore discriminazione e la creava soprattutto nei confronti delle bambine, sulle quali Maria Grazia aveva scritto così tanto».

«Attualmente – spiega Mario – abbiamo avviato un progetto di accoglienza dell’infanzia da strada a Kilifi, in Kenya, con l’aiuto di un padre comboniano, Padre Kizito, una figura che sta a metà fra il grande saggio e un capacissimo imprenditore, con la onlus Koinonia: loro mettono il terreno e noi realizziamo i progetti. Prevediamo programmi di istruzione, di inclusione sociale e di recupero delle realtà difficili e vulnerabili».

I progetti realizzati dalla Fondazione Cutuli, nel nome di Maria Grazia, toccano anche l’Italia. A Catania, città d’origine della giornalista, con l’associazione Lad Onlus, è in costruzione un parco giochi nel giardino che circonda il Polo di accoglienza per bambini malati di talassemia, legato all’Unità Operativa di Ematologia e Oncologia Pediatrica del Policlinico.

Per questa grossa eredità, concreta e altruista, non possiamo che dire anche il nostro grazie a Maria Grazia Cutuli. «Sicuramente – dice Mario a Ossigeno – il messaggio che rimane di Maria Grazia è l’impegno nel dare senso e significato alla vita anche attraverso il proprio lavoro. Come lei stessa diceva, Maria Grazia non si accontentava della superfice, ma voleva andare a fondo delle cose, convinta che dalla ricerca dei nodi irrisolti si potessero fare grandi passi in avanti. Volevo andare più a fondo: ecco – afferma Mario in conclusione – credo che in questa frase ci sia tutta la sua eredità. Con queste poche parole mia sorella ci spiega da che parte guardare le cose, da che parte raccontare i fatti; riusciva a essere empatica fino a sentire la sofferenza e il dolore, per comprenderlo. In molti tratti lei sovrappone il suo percorso umano a quello professionale». E dopo venti anni il suo impegno raccoglie ancora frutti.

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