Il racconto della moglie Daniela, oggi Presidente della Fondazione che offre cure ai bambini in fuga dalle crisi del mondo

di Grazia Pia Attolini – Marco Luchetta faceva del giornalismo un’arma di pace, per usare un ossimoro. A chi gli chiedeva perché accettasse missioni rischiose, rispondeva: “Vado perché non si può far passare tutto sotto silenzio. Bisogna testimoniare, far sapere. Pensate soltanto a quei bambini…”, riferendosi ai bambini nati da stupri etnici o figli di genitori dispersi nei combattimenti. A raccontare chi era il giornalista ucciso insieme agli operatori Alessandro Saša Ota e Dario D’Angelo il 28 gennaio 1994 a Mostar è la moglie Daniela Schifani Corfini Luchetta, presidente della Fondazione dedicata ai tre cronisti uccisi e a Miran Hrovatin, che fu assassinato due mesi dopo in un agguato a Mogadiscio, insieme alla giornalista del Tg3 Ilaria Alpi.

«Marco era triestino. Un ragazzo molto curioso e intelligente che esercitava l’ironia verso il mondo, gli altri e anche verso se stesso. Era una persona molto modesta, che non ostentava il suo lavoro. Un ragazzo semplice con una grande sensibilità. Come tutti i triestini era legato all’ex Jugoslavia dai ricordi delle gite e delle vacanze in famiglia. Per questo, quando è scoppiata la guerra nei Balcani, ne rimase davvero colpito. Non riusciva a capacitarsi di come fosse cambiata quella terra che lui aveva conosciuto da ragazzo, dove le persone che erano convissute fino a quel momento si facevano la guerra».

Dallo scoppio del conflitto Marco Luchetta fu inviato più volte a documentare le drammatiche condizioni della popolazione civile. Era dipendente della sede Rai del Friuli-Venezia Giulia, come lo erano anche il video operatore Alessandro Saša Ota e il tecnico di ripresa Dario D’Angelo.

«Poco prima dell’inizio dei conflitti, con Marco facemmo una vacanza in quei luoghi che di lì a poco si sarebbero trasformati in teatro di guerra. Fu un viaggio alla scoperta di quella che lui chiamava “la terra dei padri”. Al ritorno restammo per ore in una fila in auto perché c’erano i nazionalisti che bloccavano la strada. Ricordo che Marco pensò che era accaduto qualcosa di grosso».

Il 28 gennaio di ventinove anni fa i tre inviati Rai erano a Mostar. Avevano già fatto delle interviste nella zona Ovest, controllata dalle truppe croate. Per completare il lavoro dovevano andare dall’altra parte della città, nella zona Est sottoposta da giorni a un intenso bombardamento. La troupe aveva provato a raggiungere la città già un mese prima, a dicembre del 1993, senza esito. Fu invece ammessa quel 28 gennaio 1994, autorizzata dal comando dell’UNHCR. Dario D’Angelo stava riprendendo gli occhi tristi di Zlatko, uno dei bambini che si trovavano nel rifugio nel quale la troupe cercava di entrare, quando l’esplosione uccise lui e i suoi colleghi. Zlatko sopravvisse.

«Marco ha lasciato il ricordo di una persona vera, che amava la vita, la sua famiglia, non aveva messo in conto quello che poi è successo», prosegue nel racconto la moglie Daniela che ha deciso di non proseguire la battaglia giudiziaria. Dopo l’uccsione degli inviati RAI fu aperta una inchiesta per accertare le responsabilità, che si concluse con un nulla di fatto. Nel 1998 la moglie di Alessandro Saša Ota presentò un esposto alla Corte internazionale di giustizia per chiedere l’accertamento delle responsabilità. La sua richiesta è rimasta senza risposta.

«Mi sono chiesta se quella granata fosse stata lanciata intenzionalmente per colpire dei giornalisti, ma nessuna evidenza è emersa. Ci sono però dei fatti, come l’arresto dei bombardamenti sulla città dal giorno dopo l’uccisione dei tre inviati RAI come mi disse successivamente il sindaco di Mostar. So inoltre che ricevevamo a casa delle chiamate anonime. So anche che i giornalisti che denunciavano la guerra erano oggetto di continue minacce. Per superare il dolore mi sono rassegnata al pensiero che ad uccidere Marco e i suoi colleghi sia stata la guerra».

Daniela Schifani Corfini Luchetta ha trasformato quella tragedia in «qualcosa di bellissimo».

«Dal 1994 la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin aiuta i bambini che non possono essere curati nei loro paesi di origine. Il primo bambino è stato Zlatko: si era salvato miracolosamente sotto i corpi di Marco e Saša. Poi non ci siamo più fermati. Oggi ne abbiamo aiutati più di ottocento. Essi provengono da diverse parti del mondo martoriate da conflitti e povertà. A Trieste cerchiamo di aiutare anche chi arriva dalla rotta balcanica: grazie a una convenzione con la Prefettura stiamo ospitando alcuni profughi ucraini. Un lavoro davvero impegnativo e molto bello. Se lo vedesse Marco sarebbe allibito e incredulo».

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