OSSIGENO 25 agosto 2023 – In occasione del 19esimo anniversario dall’uccisione del pubblicitario e giornalista Enzo Baldoni, Ossigeno per l’informazione pubblica un suo racconto scritto il 15 agosto 2004, pochi giorni prima del rapimento e della sua morte.

Da circa 15 giorni Baldoni si trovava a Bagdad, con un accredito del settimanale “Diario”, per realizzare da freelance un reportage sull’atrocità della guerra in corso. Sul suo blog, Bloghdad, scriveva ciò che osservava e i suoi interrogativi: nelle pagine tutt’ora consultabili online (su enzobaldoni.com) si alternavano la cronaca al desiderio di aiutare le vittime, un imperativo che si trasformò in impegno al fianco della Croce Rossa.

Nel testo che Ossigeno ha deciso di pubblicare, il reporter parla della prima volta in cui si è trovato dinnanzi a un bradley, un carro armato americano. In quelle ore gli americani stavano accerchiando la città. Baldoni e altri volontari stavano provando a trsportare un carico di medicinali. Credeva che quel bradley non lo avrebbe risparmiato, invece lo fece mentre nei paraggi si sentivano raffiche e colpi di mortaio.

Alla vista del carro armato il pensiero di Baldoni va al collega e amico Raffaele Ciriello, reporter ucciso due anni prima a Ramallah, in Cisgiordania, crivellato da una raffica di pallottole, mentre stava documentando un rastrellamento dell’esercito di Tel Aviv (leggi).

di zonker [Enzo G. Baldoni]

Bene, ci siamo. Ora vediamo cosa sai fare, vecchio mio. Dietro quest’angolo c’è un carro armato americano. Forse l’equipaggio è nervoso. Forse hanno l’ordine di sparare o forse no, ma noi non lo sappiamo. Non posso togliermi dalla testa quel che è successo all’amico e collega di penna Raffaele Ciriello, ucciso in mezzo alla strada dalla raffica di un mitragliere nervoso quando era di fronte – armato solo di una macchina fotografica – a un Merkava israeliano. Palle fredde. Vediamo che succede.

Sventolo cautamente da dietro l’angolo la bandiera con la croce rossa. Poi la sventolo più forte. Sbircio dietro lo spigolo. E’ un Bradley. E’ una specie di rospo color sabbia su una strada color sabbia tra case color sabbia. Sta lì, indifferente, tetragono, acquattato, pronto a sparare la sua lingua vischiosa per catturare l’insetto. Solo che
l’insetto sono io, cazzo. Sono stato carrista, e so esattamente com’è fatto, dentro, un carro armato. Ho nel naso l’odore della plastica dei seggiolini e dell’olio da motore. Mi sono familiari le leve di guida, i periscopi, la torretta di puntamento. Conosco la leggera claustrofobia che ti prende al posto di guida, e la sensazione di invincibilità blindata quando ari la strada con un gran rumore di cingoli. Ma, visto coi sandali sulla strada polverosa, un carro armato è un’altra cosa.
Il primo Bradley non si scorda mai. Specialmente se sei dalla parte sbagliata della mitragliatrice. Sventolo ancora la bandiera, faccio un passo, mi riparo dietro un palo della luce e urlo: “Ehi, boys! Italian Red Cross! Don’t shoot! We are here for humanitarian reasons! Can we come forward?”
Il rospaccio non fa una mossa. “Ehi, boy, don’t shoot! I’m coming!”
Faccio un passo laterale e mi metto in vista, pronto a schizzare al riparo del palo di cemento. In una mano ho la bandiera e nell’altra il distintivo dei Volontari del Soccorso, è ridicolo, da laggiù non riescono certo a leggerlo, ma forse per un ragazzotto dell’Ohio o del Wisconsin fa “legality”, come quando un poliziotto viene avanti tenendo il distintivo in una mano e la pistola nell’altra. Solo che qui i distintivi, come le chiacchiere, stanno a zero.

Sono le tre del pomeriggio, ho la gola secca, ma non credo dipenda dalla calura. Faccio un altro passo di lato, cauto. Sbircio indietro: al riparo dietro l’angolo Gareeb e Salah mi guardano, tesi. Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo, mi porto in mezzo alla strada sventolando disperatamente la bandiera con la sensazione che da un momento all’altro mi faranno secco, continuo a urlare red cross don’t shoot, con la sensazione di camminare in equilibrio su un filo.
Il rospo è sempre lì, immobile, acquattato nella sabbia. Non dà segno di vita, mi chiedo chi saranno i ragazzi che, da lì dentro, mi stanno guardando, e se il capocarro sta per ordinare “smoke him”, come dicono quando si tratta far fuori uno. Faccio segno a Ghareeb (suo contatto iracheno, ndr) di avanzare lentamente con la Nissan. L’imbecille accelera e schizza via brusco, alle mie spalle. Lo segue il camion dei medicinali. Wew, passato: raggiungo anch’io piano piano l’altro lato, gridando “Thank you! Thank you!” all’indirizzo dei carristi invisibili. Pensa un po’. Sinceramente grato che non mi abbiano sparato. Rientro in macchina, Salah mi stringe la mano, dice con voce grave: “You’ve been brave.”. Sticazzi, Salah. Dammi la bottiglia dell’acqua, che ho la gola secca.

Commenta