In Somalia doveva essere il suo ultimo viaggio da inviato del Tg2. Rimase ucciso il 9 febbraio 1995. L’appello alla Rai: firmare le sue immagini

di Grazia Pia Attolini – «Avevo nove anni quando è successa la tragedia. Ero piccola, ma ho tantissimi ricordi di mio padre perché, nonostante lavorasse moltissimo, quando era a casa era davvero molto presente sia per me che per mio fratello Davide». Adelaide Palmisano racconta a Ossigeno per giornalistiuccisi.it chi era il papà Marcello, il cineoperatore ucciso in Somalia il 9 febbraio 1995, tracciando il lato più umano del giornalista Rai di origini pugliesi che, inviato a Mogadiscio con la giornalista Carmen Lasorella, non fece più ritorno a casa.

Quello doveva essere il suo ultimo viaggio, dice Adelaide per la prima volta pubblicamente: «aveva deciso di lavorare unicamente in Italia e non avrebbe più accettato di andare in posti così pericolosi, perché amava il suo lavoro, però amava anche noi. Purtroppo, non l’abbiamo più riabbracciato».

La voce di Adelaide trema e poi accenna a un sorriso: «Era un papà stupendo». Il dolore lascia il posto ai ricordi: «Papà passava sempre l’estate con noi, ci portava in Puglia dalla nonna, nella sua casa di campagna: era un momento di gioia per me, mio fratello, mia madre e tutta la famiglia riunita. Trascorrevamo l’estate con i suoi fratelli e i loro figli. Amava scherzare, giocare con noi e i cuginetti. Papà ci caricava, letteralmente, tutti in macchina e ci portava al mare, tutti i giorni. Della vita romana, invece, ricordo le domeniche mattina: al mio risveglio papà era seduto al tavolo del salone e leggeva i giornali. E ricordo il Natale. Papà era un bravissimo nelle attività manuali, in particolare nella costruzione del presepe. Ogni anno si dilettava a progettare e costruire insieme a noi le montagne, il mulino ad acqua, tutti gli elementi che grazie alla meccanica prendevano vita e si illuminavano. A Natale continuo a portare avanti la tradizione, facendo esattamente come lui mi ha insegnato».

Marcello Palmisano era nato il 17 gennaio 1940 a San Michele Salentino, in provincia di Brindisi. Dopo la maturità classica emigrò prima in Svizzera e poi in Germania dove studiò fotografia e divenne telecineoperatore. Venne assunto in Rai nel 1972. Girò il mondo, ma «era legatissimo alla sua terra, ai suoi fratelli, a sua mamma – dice Adelaide – Per questo mia madre ha voluto fortemente che riposasse a San Michele Salentino. Così dopo circa dieci anni nel cimitero di Verano a Roma, dal 2007 papà è tornato nella sua Puglia».

Oggi a San Michele la memoria del giornalista passa attraversa le nuove generazioni grazie a una iniziativa promossa da uno dei suoi fratelli, il prof. Vincenzo Palmisano. «Il comune, insieme al comitato Pro Borsa di studio Marcello Palmisano – spiega Adelaide – promuove l’assegnazione di una borsa di studio rivolta a studenti delle scuole superiori di primo grado del territorio che siano meritevoli e che provengano da famiglie che versano in situazione di precarietà economica».

Lo spirito, la professionalità e il ricordo del cineoperatore Rai sono impressi anche a Bassiano, paese in provincia di Latina, dove il Comune nel 2017 gli ha intitolato una piazza. Racconta Adelaide: «Mamma è di Bassiano. È qui che ha conosciuto mio papà mentre questi era in trasferta per lavoro. Riprese mia mamma che era affacciata ad una finestra e pochi giorni dopo si presentò a casa per conoscerla».

In più di 20 anni di servizio, Palmisano ha svolto per il Tg2 numerosi reportage in tutto il mondo. Gli occhi della sua telecamera si sono posati sugli ultimi, sui diseredati, sui luoghi della fame e delle guerre; hanno catturato i momenti più importanti della fine del secolo scorso: la caduta del Muro di Berlino, l’invasione sovietica in Afghanistan, la guerra in Libano, lo sbarco dei primi profughi albanesi sulle coste pugliesi nel 1991. «Ancora oggi – ricorda Adelaide – moltissime delle immagini di repertorio trasmesse dalla Rai sono quelle realizzate da mio padre. A me e alla mia famiglia piacerebbe molto che queste immagini, ovviamente di proprietà della Rai ma anche patrimonio mediatico di tutti, avessero in evidenza anche il nome di chi le ha realizzate: sarebbe un riconoscimento importante per un giornalista che amava il suo lavoro e l’azienda per la quale ha lavorato con dedizione, passione e professionalità, fino al sacrificio della vita».

Dell’agguato del 9 febbraio 1995 la figlia del giornalista apprese i dettagli solo molto tempo dopo. Dietro il tragico agguato ci sarebbe stata la guerra tra le multinazionali delle banane operanti in Somalia e i giornalisti sarebbero stati oggetto di scambio di persona.

«La ricerca della giustizia per la morte di mio padre è per la mia famiglia un tema molto delicato», confessa Adelaide che racconta: «Mia mamma si è ritrovata da sola e giovanissima a dover crescere un ragazzo adolescente e una bambina. Passata la tragedia, per noi la priorità fu capire come sopravvivere: tutto il nostro mondo era cambiato. La mia famiglia, a parte seguire le inchieste, non ha avuto abbastanza forza per lottare e cercare la verità, come ad esempio hanno fatto i genitori di Ilaria Alpi che ho sempre ammirato e stimato per questo. Col passare degli anni è maturata dentro di noi l’idea che la verità non avrebbe riportato in vita papà. Tuttavia, non sapere esattamente cosa sia successo ha sicuramente creato vuoto: è come se mancasse un tassello di un puzzle che proviamo a comporre ogni giorno, cercando giorno per giorno di rielaborare quanto accaduto».

Adelaide, oggi trentacinquenne, ha provato ad andare avanti: discreta, come tutta la sua famiglia, e impegnata a portare avanti gli insegnamenti di suo padre nella vita di tutti i giorni e nella sua professione. Ricercatrice ed esperta legale per l’Agenzia dell’Unione Europea per l’Asilo, la figlia di Marcello Palmisano, si occupa di diritti umani ed, in particolare, di immigrazione ed asilo.

«Il diritto all’informazione è strettamente connesso ad altri diritti, alla democrazia, alle scelte che facciamo. Senza una informazione libera non si può avere uno stato di diritto. Eppure, ancora oggi nel mondo questo diritto non è assicurato adeguatamente. Eppure, ancora oggi i giornalisti vengono uccisi per impedire che la popolazione venga a conoscenza di notizie scomode – sottolinea Adelaide – o vengono messi a tacere. L’ultimo caso è quello del giornalista Amir Aman Kiyaro, in Etiopia per Associated Press, arrestato lo scorso novembre con l’accusa di favoreggiamento del terrorismo a causa di un reportage sul gruppo armato “Oromo Liberation Army” nelle zone di conflitto. Chi e come accerterà le responsabilità di questa vicenda in un paese in cui il governo è dichiaratamente contro la libertà di informazione e di espressione?»

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