Riassunto della tesi di dottorato (PhD) di Sarah Vantorre all’Università di Anversa (Belgio) dedicata all’opera di Giuseppe Fava, ucciso nel 1984

Nel 1950, dopo una breve carriera come avvocato, Giuseppe ‘Pippo’ Fava (Palazzolo Acreide 1925-Catania 1984) diventò giornalista. Le attività di sfruttamento di Cosa Nostra come strascico della Seconda Guerra Mondiale gli fecero capire che la società siciliana aveva un urgente bisogno di avanzare verso una maggiore giustizia sociale che avrebbe potuto contribuire a impedire la violenza.  Fava elaborò un’idea etica del giornalismo: “dove c’è la verità” scrisse “la giustizia può avanzare e la libertà si può difendere”.

Fava fu anche uno scrittore molto apprezzato dalla critica, drammaturgo, soggettista cinematografico e documentarista. Purtroppo, il suo assassinio per mano della mafia catanese  il 5 gennaio 1984, poco prima della pubblicazione del dodicesimo numero del suo mensile antimafia I Siciliani ha per molto tempo lasciato in disparte agli occhi del pubblico  il ricordo e l’apprezzamento della sua versatilità culturale e della sua funzione sociale in quanto intellettuale.

Il fatto che Fava fosse prevalentemente conosciuto come giornalista, per l’approccio giornalistico alla realtà, ha inciso fortemente sul contenuto e sullo stile delle sue opere facendo sì che la sua opera letteraria restasse, almeno fino ad ora, quasi messa da parte, fuori dai canoni più rigorosi della narrativa italiana e siciliana e, di conseguenza, dalla ricerca accademica. E ciò malgrado l’accresciuto interesse  per una narrazione impegnata socialmente e politicamente e per forme ibride del racconto nel settore interdisciplinare degli studi di italianistica.

La tesi analizza l’aspetto innovativo dell’impegno di Fava nella Sicilia postbellica e si chiede se e con quali strumenti narrativi le sue opere possano aver aperto la strada verso una moderna forma di impegno antimafia.

Dopo aver contestualizzato e precisato i valori essenziali e le forme dell’impegno intellettuale di Fava, la ricerca analizza e illustra come – attraverso i canali giornalistici e artistici a sua disposizione e superando le barriere tra mito e realtà – Fava sia riuscito a tradurre questo suo impegno in opere che narrano la realtà e la condizione umana (l’anima del Sud) che si nascondono dietro questa realtà. E lo fa puntando sull’uso che egli fa del processo penale come metafora delle sue indagini giornalistiche e come ambito nel quale inserire i capitoli dei suoi romanzi e i suoi drammi processuali.

Cooptando i suoi lettori come giurati in un processo – una tecnica che sotto molti aspetti ricorda la metodologia usata da Paulo Freire e Augusto Boal per far prendere coscienza ai lettori – Fava li invita a percepire la realtà in cui vivono come una situazione problematico-oggettiva, per spingerli a indagare criticamente e giungere, attraverso oculate conclusioni e scelte, a liberare la Sicilia  dall’ingiustizia sociale e dall’oppressione della mafia. Come se non bastasse, Fava li sfida anche a prendere coscienza in maniera introspettiva di quegli aspetti della loro mentalità che permettono alla mafia di condizionare la loro vita.

Da un’analisi delle azioni creative nate in risposta all’opera di Fava emerge che i suoi documenti che raccontano l’anima del sud hanno catalizzato coscienza critica e speranza aprendo la strada alle varie forme di impegno antimafia contemporanee. Fava si può quindi definire come un ponte intergenerazionale che ha aperto la strada alle forme contemporanee di impegno contro le mafie sia in Sicilia sia nel resto dell’Italia.


Leggi la storia di Pippo Fava qui.