Questo articolo del giornalista Alessandro Ursic è tratto dal libro “Fabio Polenghi. Bangkok Last Pictures”, 2013

Quando iniziò, il 12 marzo 2010, la protesta sembrava una festosa sagra di villaggio. Decine di migliaia di “Camicie rosse”, provenienti in gran parte dal nord-est rurale della Thailandia, invasero pacificamente Bangkok per chiedere al governo di Abhisit Vejjajiva di farsi da parte; sognavano il ritorno in patria dell’ex premier e magnate Thaksin Shinawatra, deposto da un golpe nel 2006 e da allora in auto-esilio, considerato un populista nemico della monarchia dall’élite e dalla borghesia urbana.

I media nazionali, tradizionalmente Bangkok-centrici, dipinsero i manifestanti come un’orda barbarica di bifolchi pagati da Thaksin. Ma per tre settimane, forti del loro presidio di Phan Fa nella parte più antica della capitale, i “rossi” furono in sostanza tollerati come una seccatura minore. La tensioni si stavano tuttavia accumulando in fretta, e il fallimento dei colloqui per arrivare al compromesso di elezioni anticipate fece precipitare gli eventi. Il 3 aprile la protesta si spostò alla Ratchaprasong Intersection, il cuore del commercio di Bangkok, estendendosi fino al quartiere finanziario di Silom. I “rossi” erano riusciti a bloccare il normale funzionamento della capitale.

In un clima di crescente incertezza e confusione, con divisioni anche all’interno della polizia e dell’esercito, il governo decise che la protesta andava smantellata. Il 10 aprile i militari passarono all’azione. Un pomeriggio di combattimenti di strada culminò in serata con due distinti scontri a fuoco presso la Kok Wua Intersection e il vicino Democracy Monument, che provocarono 26 morti tra entrambi gli schieramenti e lasciarono una scia di odio e accuse reciproche. Della presenza di misteriose “camicie nere” mascherate e armate si discute ancora oggi, e forse non si chiarirà mai chi fossero i mandanti.

Le divisioni sociali e politiche che attraversano la Thailandia si acuirono sempre più. In una Bangkok teatro di diverse scaramucce ed esplosioni non rivendicate, con il passare delle settimane una repressione armata era sempre più nell’aria. Dopo un ultimatum del governo rimasto disatteso, l’esercito passò all’offensiva il 13 maggio, circondando la “cittadella rossa” e aprendo il fuoco contro altri simpatizzanti accorsi da fuori, nelle aree di Bon Kai e Din Daeng.

Era chiaro che la protesta aveva le ore contate, e la mattina del 19 maggio scattò il blitz finale. I militari penetrarono nell’accampamento da più lati; il fotografo Fabio Polenghi fu trafitto da un proiettile mentre stava documentando la ritirata dei “rossi”. Dopo un ultimo attacco contro la “zona sicura” del tempio di Wat Pathum, a fine giornata Bangkok era una città spettrale, attraversata dal fumo di una trentina di edifici – tra cui l’enorme centro commerciale Central World – dati alle fiamme. E la Thailandia, di fronte allo sforzo di dare un senso a 91 morti e 2 mila feriti in oltre due mesi di proteste, si scoprì incapace di trovare una verità condivisa.

di Alessandro Ursic, giornalista free-lance e collaboratore dell’Agenzia Ansa da Bangkok


Leggi la storia di Fabio Polenghi qui.

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