Questa biografia è stata scritta dalla giornalista Luciana Borsatti

Fabio Polenghi aveva 48 anni quando fu ucciso in Thailandia. Era nato a Monza nel 1962 e “aveva ben presto scelto il mondo come casa e la fotografia come un caleidoscopio per raccontarne le mille realtà diverse: dalla moda al reportage nei luoghi dimenticati”: con queste parole lo ricorda il sito dedicato alla sua memoria e voluto in particolare dalla sorella Elisabetta. Fabio fu ucciso il 19 maggio del 2010 a Bangkok, colpito da un proiettile in dotazione all’esercito thailandese. Come fanno i fotoreporter freelance più coraggiosi, stava documentando, stando insieme ai più deboli, la fase finale delle manifestazioni di protesta del movimento antigovernativo delle “Camicie rosse”, che da due mesi invocavano elezioni anticipate.

Quel 19 maggio, l’esercito pose con un blitz sanguinoso la parola fine a settimane di scontri che avevano già causato decine di morti e di feriti da entrambe le parti. Diede infatti l’assalto finale al luogo dove i manifestanti erano accampati, nel centro della Capitale. Fabio cadde colpito al cuore da un proiettile e morì durante il trasporto, improvvisato su una motocicletta, in ospedale. La stessa mattina vennero feriti anche altri tre giornalisti, un olandese, un canadese ed un americano.

L’esercito sostenne inizialmente che il fotoreporter era morto per l’esplosione di una granata lanciata da un “terrorista” che aveva ucciso anche un soldato, e poi continuò a negare di avere mai colpito civili. Il 29 maggio 2013 la sentenza di un processo penale iniziato circa un anno prima stabilì invece che Fabio era stato colpito al cuore da un proiettile di fucile M16, in dotazione ai militari. Era stato trafitto alla schiena mentre correva con i “rossi” che si stavano ritirando per sfuggire all’offensiva armata dell’esercito, che quel giorno causò almeno una quindicina di altre vittime. Il bilancio finale di due mesi di proteste fu di almeno 91 morti e quasi 2mila feriti. Il 10 aprile era stato ucciso il reporter giapponese Hiro Muramoto, con altre 25 persone.

La sentenza del 2013 non individuò il militare che aveva sparato a Fabio né chi sul campo aveva dato l’ordine di colpire anche a costo di uccidere. L’accertamento giudiziario si fermò a quello stadio, anche se l’inchiesta aveva già chiamato in causa il primo ministro, Abhisit Vejjajiva, e il suo vice, Suthep Thaugsuban, come coloro che avevano dato ordine di reprimere la protesta anche con proiettili veri. L’apertura di una nuova inchiesta avrebbe richiesto, come già era accaduto con la prima, un gravoso impegno diretto della famiglia di Fabio, ma difficilmente avrebbe potuto approdare a nuovi risultati nei confronti di un esercito che dal 1932 aveva già compiuto 18 colpi di stato e non aveva mai subito condanne per fatti di sangue.

La madre di Fabio, Laura Chiorri, e la sorella Arianna erano presenti alla sentenza insieme all’altra sorella Elisabetta, che per ottenere quel risultato si era invece già recata in Thailandia per una decina di volte in tre anni. Forse la sua battaglia sarebbe continuata se non fosse stata portata via da un tumore, nemmeno un anno dopo, a Milano.

Introverso nonostante il sorriso sempre aperto, Fabio Polenghi preferiva non parlare di sé. Lasciava che a raccontarlo fossero le sue passioni, le sue fotografie. Sono loro a testimoniare il suo cammino umano, personale e professionale che finiscono per coincidere. Così dopo anni di impegno per le riviste di moda, (Elle, Marie Claire, Vogue, Vanity Fair) l’avventura estetica comincia a stargli stretta, cresce la voglia di raccontare realtà più complesse, umanamente coinvolgenti”. Questo il ritratto del fotoreporter che compare sul sito a lui dedicato. Se gli anni dal 1985 al 2000 lo vedono impegnato prevalentemente nella moda, con base prima a Londra e poi principalmente a Parigi – precisa la sorella Arianna – la sua passione per il reportage comincerà presto a portarlo lontano, a cominciare già dal 1999, e riempirà la sua vita negli anni successivi, come testimoniano alcuni dei suoi portfolio tematici pubblicati sul sito. “Fabio vuole vedere, raccontare, vivere accanto per giorni o settimane a chi fotograferà. per capire meglio, per condividere. Non è un uomo dallo scatto facile, dal clic e fuga, lui vuole essere parte di ciò che testimonia, sperando che questo serva un giorno a rendere il mondo migliore”.

Lo racconterà lui stesso in prima persona nel 2008, facendo domanda di collaborare nel campo delle Ong per la cooperazione internazionale. Fabio è consapevole della sua capacità empatica di entrare in contatto con gli altri e ottenerne la fiducia, come è accaduto finora con i soggetti dei suoi reportage, e desidera fortemente operare nel sociale. “Penso che queste mie capacità – si legge nel testo pubblicato anch’esso sul sito – possano essermi molto utili per lavorare con ottimi risultati nel settore dell’umanitario. La mia volontà è legata soprattutto all’amore e al rispetto che porto per l’uomo in generale ed alla capacità che sento di avere, di aiutare quanti ne abbiano bisogno (..). Sono stato nel Kosovo, accompagnando la Kfor, in Brasile, collaborando con alcuni progetti sociali ed Ong, lavorando su temi di educazione, formazione ed integrazione di minori in zone ad alto rischio sociale, sviluppando anche soggetti su prostituzione e gang giovanili, in Sud Africa, dove ho sviluppato un reportage relativo agli omicidi ed all’insicurezza in alcuni gruppi minoritari, in Cambogia, dove ho sviluppato un lavoro sulle mine anti-uomo, anche con il supporto di Cmac (Cambodian Mine Action Center, ndr.) e di Emergency, nel Myanmar e nei campi profughi al confine tailandese, per soggetti sulla condizione dei Karen ed altri gruppi etnici in fuga dal regime birmano, ed in molti altri paesi (Kenia, Sierra Leone, Messico, Honduras, Cuba, Cina, Giappone, Korea, Nepal, India…).” Nelle favelas di Rio de Janeiro per esempio, scrive il Corriere della Sera (che il 20 e il 21 maggio dedica una intera pagina ai fatti di Bangkok, seguiti dall’inviato Marco Del Corona) aveva lavorato nel giugno 2003 (ma in Brasile era tornato anche dopo e in particolare nel 2007, lo stesso anno in cui era andato anche in Thailandia a documentare il mercato del sesso), mentre al confine birmano si trovava a fine 2009.

Di sé Fabio aveva detto ancora, in un curriculum su internet, di essere stato anche “occasionalmente regista, con varie realizzazioni all’attivo, la più significativa tra le quali un documentario di 52′ Linea Cubana che racconta di un padre, campione olimpico di pugilato e di suo figlio, campione nazionale nella stessa disciplina, realizzato a Cuba…”. E la sua stessa voce la possiamo ancora sentire in un’intervista a The Right Perspective sempre sul sito ufficiale. Dove si trova anche una breve intervista video girata a Bangkok da Reporters Without Borders, in cui Fabio racconta di lavorare per l’agenzia News Picture e di non avere avuto alcun problema con le autorità fino ad allora.

Le sue rare qualità umane le descrive Grazia Neri, fondatrice dell’agenzia fotografica per la quale Fabio aveva lavorato da free-lance (e nel 2010 ormai in liquidazione), in un audio di Radio Popolare ripreso dallo stesso sito): “Ricordo che la conversazione con lui era sempre intelligente, ti riempiva di qualche comunicazione ed era la persona con la quale potevi parlare di tutti gli avvenimenti del mondo, e questo più mi aveva colpito di lui”. Inoltre, prosegue, “aveva una personalità così estroversa ma al tempo stesso timida e gentile, che era una cosa rara e lo rendeva immediatamente simpatico. Una delle sue passioni era fotografare la moda, le sfilate, il mondo femminile, ma a tutto ciò che lui faceva si avvicinava con delicatezza”.

Se si è trovato negli scontri di Bangkok – scriverà poi la stessa Grazia Neri in La mia fotografia (Feltrinelli 2013) – era per la sua serietà. In tempi in cui la professione del fotografo era già in grande crisi, lui aveva mantenuto integro il bagaglio degli inizi: intuizione giornalistica, passione, versatilità, documentazione; la capacità di non prendersi troppo sul serio, il desiderio di confrontarsi sul senso del lavoro, e la prontezza. (…) Tutti ricordano anche la sua incertezza sul dove stabilirsi. Sarebbe andato a stare lì dove avesse trovato una più fertile geografia di storie e di problematiche da raccontare. Pensava il mondo in anticipo. Forse anche per questo si è trovato a Bangkok in quel giorno di maggio”. A Bangkok viveva già da tre mesi, con un permesso locale da fotoreporter, ma era già da anni che lavorava nel sudest asiatico come free-lance per varie testate e agenzie di immagini. Le “camicie rosse” le seguiva sempre da free-lance e senza alcuna copertura se non il compenso pattuito per le immagini. La sua avventura finì dunque in Thailandia, dove ancora una volta “voleva essere parte” di ciò che testimoniava. I suoi ultimi scatti che aveva già scaricato nel computer li troverà la sorella Elisabetta, anche lei fotografa: li raccoglierà in una mostra organizzata al Club dei corrispondenti stranieri e in un libro (in tailandese, inglese e italiano) pubblicato nell’aprile 2013 Bangkok – dove intanto lei stava cercando da tre anni, con tenace determinazione, verità e giustizia per Fabio. Il libro – in commercio solo in Thailandia, dove per molti il fotoreporter italiano era diventato quasi un mito – si intitola Bangkok Last Pictures 2010 ed è contrassegnato dal logo RFP, Reporter for Passion. “Quello che vuole fare l’autore – vi si legge – è accompagnare il lettore attraverso gli eventi del tempo: eventi che erano spesso terribili e violenti ma che, visti attraverso la sua passione per la verità e le lenti del suo obiettivo, sono trasmessi con amore, cura e grande professionalità anche in quelle difficili circostanze”.

di Luciana Borsatti


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